Week 31: Francesco Targhetta (tr. Marella Feltrin-Morris)
La morte seconda
Quelle sere in cui le macchine arrivano
a sciami, in file di parcheggi lungo
vie di paese, e non c’è luna che illumini
le bifamiliari ma lampioni in giardino
che scolpiscono l’aria, spegnendo
in silenzio l’estate, in lieve dissolvenza
dietro i teli sui barbecue e fra i camper
negli spiazzi deserti: è quando
si indicono le prime riunioni,
in cui cerchi di trovare, per l’autunno
alle porte, un senso nuovo, altre ragioni
con cui trascinare il mantello dei giorni.
Le maestre dell’asilo ti accolgono
estatiche già mentre appoggi i maniglioni
antipanico, un bidello con le braccia
conserte sullo sfondo di disegni
sui muri (le stagioni, gli animali,
i fiori), tutte cose
che accusano i padri, i nostri lavori
con auto aziendali, come leggi
nelle forme e nelle tinte pallide
con cui i visi languono sulle ghirlande
per le feste natalizie in famiglia.
«Il programma
è importante che sia condiviso»,
dicono nell’afa dell’aula magna
al sapore di pongo e verdure lesse
le maestre eccitate negli occhi, e tu
che niente ritieni di condividere
col padre assessore che ti siede
davanti, due cellulari, i capelli tinti,
niente neppure col suo unico figlio
e niente coi nipoti che avrà costui,
ma annuisci lo stesso,
sedato, mentre entrano genitori in ritardo
a causa di sessioni in palestra,
annuisci già con un cerchio alla testa
sulle luci al neon e gli effluvi sporchi
del linoleum nei corridoi: i programmi
(è ovvio) riguardano,
sentenzia la maestra più giovane,
«riguardano direttamente anche voi».
Quest’anno l’intenzione è di seguire
da vicino, come traccia per lezioni
che si annunciano magnifiche, il Cantico
delle Creature, Francesco d’Assisi,
ogni elemento incontrato nelle strofe
soggetto di schizzi e riflessioni
guidate: le stelle, il vento, il sole,
l’acqua, la luna, la terra, finché «ora,
vi prego, dividetevi in gruppi», e disegnare
bisogna, noi, che ci guardiamo
solo in parte sconvolti,
«i grandi macrotemi
su cui lavoreranno
su cui lavoreranno i vostri bimbi»,
invita in ridondanza la menade maestra.
Ecco allora spuntare spettrali
quegli immensi fogli bianchi delle infanzie
imbrattate, perché tutto, purtroppo,
riguarda anche noi, specialmente
l’ansia e lo sconforto a riflussi,
tanto più se estrae la maestra baccante
per il gruppo in cui capiti tuo malgrado
il biglietto con la scritta (una riga,
due lapis, gomme Staedtler e pennarelli
consunti)
sora nostra
la morte corporale.
E noi dunque
la dovremmo disegnare?
E perché proprio noi, finito l’asilo
negli anni di piombo e tutto scordato
del mondo, perché stasera che gli occhi
sono gonfi e mimano le nuvole che fuori
si ingrossano, perché qua dentro
tra gli spigoli di gomma
e nell’assedio delle foto scattate
alle recite, perché assieme
al padre assessore che già consiglia
un’allegoria di candidi angeli
in raccoglimento?
E tu che pensi al divorzio, al cemento,
al 740, la morte incastrata tra una cena
di wurstel e uno squillo al cliente
di Zero Branco, dove è molto più alto
il ripetitore della torre civica
secolare, «e due mani,
potremmo disegnare,
che escono dai cirri sparsi nel cielo
per prendere con sé i cari defunti»,
anche se l’idea degli angeli
ha il vantaggio, per l’assessore,
di essere più rassicurante, nessun braccio
monco pendulo tra nubi, né tanto meno
croci e cimiteri come propone una madre
ansimante, il due novembre (o è il primo?),
i fiori sopra i monumenti funebri,
l’accensione del lumino, magari
ripreso da un sole su nell’angolo,
carino, ma diavolo,
la terra è bruna e violenta,
si dicono tutti –
mentre il gruppo sui fiori
ha già finito il disegno in un trionfo
di rose, margherite e asfodeli:
meglio il cielo della terra,
ci diciamo,
che anche a dipingerlo
dà meno problemi.
Per guadagnare tempo, così, intanto,
spazziamo di azzurro l’area del foglio,
le madri che provano a conferire
un accento prettamente surreale,
il simbolismo di Previati, dice una,
sorridendo, con sfoggio di cultura senz’altro
inappropriato, anche perché tu
vorresti abbozzare un’autostrada,
un cavalcavia, una tangenziale,
l’interno dell’ufficio postale di Quinto,
la serie di euroquattro stipata tra i gelsi
e le nostre domeniche al Le Roy Merlin,
ma taci, capito l’andazzo, ti tieni nella mente
il tuo lugubre quadro, per dopo,
al rientro a casa, chiuso il cancelletto,
durante il lancio delle chiavi sopra
il mobile in ingresso, anche se incalzano
gli altri genitori: «le mani?
gli angeli? dei putti? le epigrafi?
la falce? san Pietro? se non Dio,
il padreterno, la lunga tastiera
di un piano che conduce a una luna
splendente?»,
mentre tu, di proposte, nessuna,
finché l’assessore se ne rende conto,
si volta di colpo in un rinculo di rughe
e ti fulmina: «e lei?»,
ed ecco, sorpreso: «Io?
non lo so…», balbetti,
«non sono pronto».
Alla consegna del nostro cartellone
l’aula è sgombra, ormai, i motori attutiti
delle auto in partenza e residui di madri
a raccogliere notizie su quali saranno
le altre attività legate al tema della morte
corporale, perché i bimbi vanno tutelati,
protetti difesi riparati dal male,
e qua siamo tutti d’accordo,
gli occhi arrossati, le strette di mano,
l’aria che fuori attraversa gli incroci.
Al rientro ti impalli fermo ai semafori
sulla faglia di chiaro rintanata in fondo,
dietro i tralicci, mentre trascina il profilo
dei palazzi lontano dal blu che ha riempito
le strade, la solitudine dei bar aperti
e gli scheletri di luce nei pianerottoli
che alzano stanchi i condomini dell’hinterland:
tutto il cielo che hai aiutato a disegnare
dov’è? dove si spande?, lo cerchi mentre svolti
tra gli autolavaggi,
e mica lo vedi rovesciato nei pozzi
o riflesso negli smerigli delle fermate
del bus, mica lo senti dietro i rami dei roveri
o nelle aziende dove abbaiano i cani,
e nemmeno ne mimano i solchi
le sbrecciature che tramano
terrazze e balconi,
lo spatolato sotto a cui l’aspidistra
alza in salotto il suo finto
tropico. Se sono già tutti a letto
è un bene, però, ti trovi a pensare,
sfondato sul divano in penombra
nel vuoto che pulsa tra i plaid,
perché ancora ti vedrebbero addosso
come un’oscena decalcomania
tutto ciò che non sei riuscito,
in asilo, sul foglio, a segnare,
tutto ciò che daremo in pegno.
Ed è poi con un viso di pietra
che vai a sbattere sul cuscino,
il sonno pesante sul petto,
il mattino già bianco
pronto a salire dai fossi.
Original text: first published in Lo Straniero, year 16, n. 145, July 2012.
Forthcoming in the volume La colpa al capitalismo, La Nave di Teseo.
Francesco Targhetta (b. 1980) is an Italian poet and novelist. Among his publications are a poetry collection (Fiaschi, ExCogita, 2009, republished in expanded form in 2020) and a novel in verse (Perciò veniamo bene nelle fotografie, Isbn, 2012, republished by Mondadori in 2019). His booklet, Le cose sono due (Valigie Rosse, 2014), was awarded the Delfini Prize and the Ciampi Prize. His novel Le vite potenziali (Mondadori, 2018) won the Berto Prize and the Selezione Campiello Prize.
The Second Death
Another of those nights when cars swarm in
and line up in the parking spots along
suburban streets, no moon beaming down
on two-family homes, but garden lights
that carve the air, silently turning off
the summer which dissolves
behind grill covers and among RVs
in deserted lots; that’s when
the first parent meetings are held,
where you try to find a new meaning
for the looming fall, other reasons
to help you drag along the days’ cloak.
The kindergarten teachers rush to welcome
you in delight before you’re even done closing
the emergency door, a janitor with arms
crossed framed by wall
pictures (seasons, animals,
flowers)—accusations all
against us fathers and our jobs
with the perks of company cars, you read
them in the shapes and pale hues
of faces languishing on Christmas wreaths
handcrafted for family holidays.
“The curriculum must be shared
by everyone,” say the wild-eyed teachers
in the muggy auditorium that smells like
Play-Doh and boiled vegetables,
and meanwhile you think you have
nothing in common
with the councilman father with dyed hair
who sits across from you, or
with his only child, or
with his future grandchildren,
but you nod all the same,
feeling numb, while more parents stroll in
late from gym sessions,
you nod as a tension headache is already
coming over you from the neon lights and
the foul whiff of linoleum in the hallways:
the curriculum (obviously) has a relevance,
as the youngest teacher lectures,
“a direct relevance for you all, too.”
This year’s plan is to examine
closely, as the guiding light for classes
that promise to be superb, St. Francis
of Assisi’s Canticle of the Sun, turning
each of its elements
into sketches and guided
reflections: water, the stars, the wind, the sun,
the moon, the earth—“So now,
please, split up into groups!” and draw
we must, we who are looking at each other
only in partial dismay.
“Draw the overarching themes
your children will be—
will be working on,”
emphatically instructs the frenzied teacher.
Enter the huge, ghostly
white sheets of our smeared
childhoods, because everything, alas,
has a direct relevance for us, too, most notably
the ebb and flow of anxiety and dejection,
all the more so if the fervid teacher picks,
for the group where you unwittingly end up,
the quote (one line,
two pencils, a few dried-up markers)
our sister
bodily death.
And so—
are we supposed to draw it?
Why us, who graduated from kindergarten
in the years of lead and forgot all
about that world, why tonight when eyes
are puffy and resemble the clouds
getting heavier outside, why in here
among padded edges,
besieged by school play photos,
why in the same group as
the councilman father, who’s already pitching
an allegory of pure white angels
rapt in prayer?
Instead you think about divorce, cement,
tax forms, death wedged in between a hot dog
dinner and a quick call to a client
in Zero Branco, where the cell tower
is much taller than the ancient belfry,
“and here we could draw
two hands sticking out
of the wispy clouds
to hoist the dearly departed up to heaven.”
Though the angel image
has the plus, argues the councilman,
of being more reassuring, there won’t be any
disembodied arms hanging from the clouds,
nor any crosses or graveyards as suggested
by an overexcited mother, nor any November 2nd
(or is it the 1st?), any flowers over tombstones,
any grave lamp being turned on, ideally
matched by the sun up there in a corner,
how pretty, but hell,
the earth is dark and violent,
we all tell each other—
while the group tasked with the flowers
is already done drawing an arrangement
of roses, daisies and asphodels:
better forget the earth and go for the sky,
we tell each other,
which is also easier
to draw.
For now, to make up for lost time,
we brush some blue over the whole sheet,
and the mothers attempt to bestow upon it
a uniquely surreal aura,
Previati’s symbolism, says one of them with a smile,
picking the worst possible time to show off her
culture, also because for your part you’d like to
sketch a toll road, an overpass,
a beltway, the inside of the post office
in the town of Quinto, the high-emission cars
crammed among the mulberry trees
and our Sundays spent at the home improvement
center, but seeing how this is going, you keep your
mouth shut and save your grim picture for later,
when you’re back home, having shut the gate and
thrown the keys on the hallway console,
though the other parents press on:
“And so—shall we draw hands?
Or angels? A few cherubs? Epigraphs?
A scythe? Saint Peter? If not God
our Heavenly Father, how about a long
keyboard that leads all the way up to a
glowing moon?”
Meanwhile you make no suggestions, none
at all, until the councilman notices,
turns around with a recoil of wrinkles
and glares in your direction: “And you?”
“Me? Well, I don’t know...”
you stammer, taken aback,
“I’m not ready.”
When we finally turn in our poster,
the auditorium is empty, muffled noises
of cars leaving while leftover mothers
inquire about what other activities
are planned around the theme of bodily
death, because children must be safeguarded,
protected, defended, shielded from evil,
and on that we all agree,
red-eyed, shaking hands
as the air outside bridges the intersections.
On your way home at every traffic light your gaze
rests on the fault line of waning sun
relegated behind the pylons, dragging
the silhouette of historic buildings away from the blue
that has flooded the streets, the loneliness of open
cafes, and the skeletons of light on the landings
stacked wearily inside suburban high rises.
All that sky you helped to draw—
where is it? Where does it spill over? You search
as you turn among car washes,
but see none of it reflected in the reservoirs,
none against the frosted panes of bus shelters,
you feel none of it behind the durmast branches
nor in the business plants with barking dogs,
its furrows aren’t mirrored
by the cracks that crisscross
terraces and balconies,
nor by the brushed cement ceiling towards which
the aspidistra raises its living room
tropics. And if everyone’s already in bed,
so much the better, you catch yourself thinking,
wrecked on the sofa in half darkness,
a void pounding through the blankets,
or else they would spy,
still stuck on you like an obscene decal,
all that you failed, back there,
to put down on paper,
all that we’ll pawn off.
Your face feels like stone
when at last it crashes against the pillow,
sleep weighing down on your chest
as already the dawn grows pale,
ready to rise from the ditches.
Translated from Italian by Marella Feltrin-Morris.
Marella Feltrin-Morris’ translations of works by Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli, Paola Masino, Stefano Benni, Dacia Maraini and Fabio Pusterla have appeared in North American Review, Two Lines, Green Mountains Review, Unsplendid, Exchanges and Five Points, among other journals. Her translation of Paola Masino’s novel, Birth and Death of the Housewife, was published by SUNY Press in 2009. She is Associate Professor of Italian at Ithaca College.